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Troppo intelligente per essere felice: la teoria del Super Cervello

Come può un’intelligenza sopra la media essere un peso da portare anziché un dono di cui essere fieri? Com’è possibile che l’intelligenza possa ostacolare, anziché favorire, la nostra felicità? Queste sono le domande che hanno ispirato molti autori che hanno dato vita a ricerca correlazionali (sì, un elevato QI è stato più volte correlato a disturbi psichici) a pubblicazioni di richiamo (ne ha parlato anche lo Scientific American) e un fiume di libri (ne è un esempio il “Troppo intelligenti per essere felici” della psicologa Siaud-Facchin). In realtà, quando si parte da questa premessa, si affronta tutto da un’ottica sbagliata. Non è l’eccessiva intelligenza a renderci infelice ma la disregolazione emotiva e l’incapacità di sfruttare al meglio il nostro incredibile potenziale cognitivo.

Correlazione tra intelligenza e disturbi mentali

La correlazione tra intelligenza e disturbi mentali può spiegarci perché le persone più intelligenti sembrerebbero essere destinate a una vita infelice. Tuttavia è bene chiarire che il fardello che stiamo portando sulle nostre spalle non è quello dell’intelligenza o di uno spiccato potenziale cognitivo, il vero fardello è la disregolazione a esso associata. Che significa? Te lo spiego per gradi.

Un po’ di cifre

Il Dipartimento di Psicologia del Pitzer College in California, ha somministrato dei test ai membri di Mensa, Mensa è una comunità internazionale che è composta da membri con un elevato QI. Il Team californiano ha studiato persone con un QI a partire da 132, mentre il QI della popolazione generale sappiamo essere di 100. L’indagine condotta dal Pitzer College ha dimostrato che le persone molto intelligenti hanno maggiori probabilità di soffrire di una serie di disturbi mentali, anche gravi.

Il Team californiano si è soffermato sui disturbi dell’umore (depressione, distimia, ciclotimia, disturbo bipolare), disturbi con base ansiosa (fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo…) e disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Confrontando le stime del campione di “persone molto intelligenti” (con QI di almeno 132) con le stime ottenute dalla popolazione generale (con QI intorno al 100), si è notato che le persone con un QI maggiore hanno una storia di disturbi mentali più ricorrente. Il 26,7% del campione ad alto QI ha riferito di aver ricevuto una formale diagnosi di disturbo dell’umore (contro il 10% della popolazione media), il 20% del campione ha mostrato sintomi clinicamente significativi di disturbi a base ansiosa (contro il 10% della media). Le statistiche erano decisamente maggiori anche per l’ADHD.

In sintesi: chi è più intelligente, ha almeno il doppio di probabilità di incorrere in un disturbo mentale. Questo riportato è solo uno dei tanti studi correlazionali che si possono trovare negli archivi delle pubblicazioni scientifiche.

La teoria del Super Cervello

Il team di ricerca californiano, così come molti altri autori, abbraccia la teoria del iper- o super-cervello. Secondo questa teoria, un maggiore QI determinerebbe una maggiore attivazione psicologica e fisiologica, una sovra-eccitabilità. Negli anni ’60, lo psichiatra e psicologo polacco Kazimierz Dabrowski, aveva già parlato di sovra-eccitabilità (psicologica e fisiologica), descrivendola come la tendenza a reagire in modo eccessivo a minacci o stimoli ambientali. Questo stato di sovra-eccitabilità indurrebbe, inoltre, pensieri ossessivi con tendenza alla ruminazione, bisogno di controllo e l’intera gamma di risposte allo stress (sia in termini emotivi che fisiologici).

Secondo la teoria del super cervello questa sovra-eccitabilità indurrebbe un circolo vizioso che, alla lunga, andrebbe a causare le classiche disfunzioni osservate nei disturbi psichici. Ad esempio, una persona molto intelligente può risultare permalosa perché andrebbe ad analizzare in modo troppo attento un commento di disapprovazione fatto da un suo amico, andando oltre con la mente e immaginando più scenari (anche negativi) di quanto farebbe una persona meno intelligente. Questo andrebbe a innescare una risposta di stress (emotivo e fisiologico) ponendo la persona in uno stato di allerta eccessivo, quindi acuendo i sensi e aumentando i livelli di attenzione agli stimoli esterni.

Quella del Super Cervello è una teoria ancora oggi abbracciata da molti psicologi, tuttavia è bene sottolineare che oggi i progressi della psicobiologia possono darci delle spiegazioni più accurate di tale fenomeno.

L’emisfero destro e l’emisfero sinistro: come funzionano?

Nel web girano tantissime favole su come funzionano gli emisferi del cervello: uno sarebbe riconducibile alla logica e l’altro alla creatività… qualche tempo fa, sui Social Network, spopolò un test “accreditato” che rivelava quale dei tuoi emisferi governasse di più (quello creativo o quello razionale?!). Quando leggo queste cose, sorrido dell’idea che spesso la fantasia supera la realtà. Ci affascina così tanto il dualismo razionalità vs irrazionalità, che ci lasciamo ammaliare da questa storia fantasiosa ignorando che i nostri emisferi non funzionano esattamente in questo modo. La “creatività” non ha un emisfero ospitante così come l’elaborazione e le funzioni superiori non sono associate ad alcun emisfero; il “ragionamento” è collocato nella corteccia pre-frontale.

In caso di vissuti difficili in età infantile, quando il nostro cervello è in pieno sviluppo, può crearsi un rallentamento nella connessione tra emisfero destro e sinistro. Gli autori van der Hart, Nijenhuis, Steele (2006) hanno ipotizzato che traendo vantaggio della tendenza dell’emisfero sinistro a rimanere orientato al compito anche sotto stress, il lato sinistro “disconnesso dalla personalità” rimanga concentrato sui compiti della vita quotidiana, mentre l’emisfero destro promuove lo sviluppo di un sé in perenne stato di allerta.

L’emisfero sinistro ha la tendenza a cogliere l’essenza di una situazione, a fare inferenze che si adattano allo schema generale di un evento e a scartare qualsiasi informazione che non si adatta. Questa modalità di elaborazione ha un effetto deleterio sull’accuratezza ma rende, in genere, più semplice l’elaborazione di nuovi dati. L’emisfero destro è del tutto veritiero: non fa interpretazioni ma sistematicamente raccoglie tutti gli aspetti non verbali di un’esperienza. Dissipiamo ora qualsiasi fantasia: le emozioni sono esperite da entrambi gli emisferi.

La capacità di codificare due modalità parallele di esperienza in un unico corpo e cervello è dimostrata dalla ricerca sul cervello degli anni Ottanta (il cervello diviso di Gazzinga) e dalle più recenti tecniche di scansione cerebrale effettuate nei primi anni Duemila, queste hanno dimostrato che gli eventi traumatici possono essere codificati come stati emotivi e fisiologici e rimarcare una disconnessione tra i due emisferi che andrebbero a funzionare in un perenne stato di iperattivazione.

Dopo un trauma (che può essere scatenato non necessariamente da un evento eclatante, ma semplicemente da una disfunzione protratta del sistema di attaccamento caregiver-bambino), il sistema nervoso autonomo si adatta a un mondo ricco di stimoli minacciosi ed è forzato ad essere sempre pronto.

Sono le esperienze precoci a correlarsi sia con i disturbi mentali che con l’intelligenza

Sono le esperienze precoci (in questo caso di natura traumatica) da ricondurre in modo parallelo, sia a una più spiccata intelligenza, sia a un maggior numero di disturbi mentali. Ricordiamo che l’ambiente psicologico in cui cresciamo guida lo sviluppo della nostra personalità ma in primis, guida lo sviluppo del nostro organismo e del nostro sistema nervoso centrale. Le sinapsi che sviluppiamo (a causa o grazie ai nostri vissuti) sono alla base della nostra intelligenza così come dei nostri disturbi mentali. Ormai il panorama scientifico mondiale concorda nell’asserire che gli stimoli ambientali condizionano in modo tangibile lo sviluppo del cervello, interagendo in modo complesso con le qualità genetiche.

L’ambiente psicologico di sviluppo ha una netta rilevanza sia nel determinare la nostra personalità, sia nel determinare la nostra intelligenza. Ora, qualcuno di voi potrebbe ricordare che ci sono state pubblicazioni che affermano che l’intelligenza è ereditaria (e quindi correlata solo a fattori genetici). Diciamo subito che il concetto di ereditarietà è molto utile ai fini statistici ma meno utile a farci giungere a conclusioni certe. Eric Turkheimer, psicologo e ricercatore noto per i suoi apporti allo studio dell’interazione gene-ambiente, ha dimostrato (con uno studio su gemelli omozigoti, quindi con lo stesso identico patrimonio genetico) come l’espressione del QI possa essere subordinata all’ambiente di sviluppo nonostante la sua ereditabilità. In altre parole è vero che il QI ha una base genetica ma la sua espressione dipende più dall’ambiente di sviluppo che non dal genotipo in sé.

In sintesi: le esperienze precoci causano un’iper-attivazione del cervello che così viene allenato ad affrontare complessità crescenti… ma meno allenato all’elaborazione della componente emozionale.

Troppo intelligenti per essere felici?

Tentare di dominare il groviglio emozionale, diventa una missione ardua per chi ha un vissuto difficile e non è abituato ad elaborare la componente emotiva sfruttando le funzioni superiori portate dalla corteccia pre-frontale. Le “persone troppo intelligenti per essere felici“, in effetti, tendono a minimizzare completamente le reazioni emotive e invalidarsi (non è niente, non significa nulla per me…. anche quando è palese che non è così) o a reagire in modo spropositato e apparire ipersensibili (una mancanza diventa motivo di delusione, una critica può diventare un’offesa). Tutto questo riflette una marcata disregolazione emotiva (l’iper-attivazione fisiologica ed emotiva teorizzata con il concetto del super cervello) che è alla base di molti disagi psichici.

Quindi, non siamo troppo intelligenti per essere felici, semplicemente non abbiamo sufficientemente allenato quelle strutture cerebrali che potrebbero aiutarci nella regolazione emotiva, un allenamento che può iniziare in qualsiasi momento nella vita dato che il nostro cervello mantiene un’elevata plasticità anche in età adulta. Anche la felicità è una questione di allenamento.



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