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LA RABBIA.

La pazienza ha un limite! Lo sa bene chi ha a che fare, in famiglia o al lavoro, con persone irritanti, irascibili, insofferenti, burbere o prepotenti. Esposti per tempi lunghi a persone di questo genere, finiamo noi stessi per innervosirci o diventare permalosi a nostra volta … anche quando sfuriate, voce grossa, modi bruschi non sono rivolti a noi o sono una caratteristica di chi si comporta in questo modo. La ricerca, ha infatti, evidenziato come stare a fianco di qualcuno che viola la normale distanza interpersonale (dai 70 cm al metro nella nostra cultura), sbatte piatti, porte o cartelle con forza,sbuffa, aggrotta le sopracciglia, mostra movimenti bruschi e frenetici, parla con un ritmo elevato, un tono metallico e il cui volume sia più alto della norma allerti il nostro sistema istintivo alle minacce, provocandoci una serie di reazioni involontarie (come sentire lo stomaco stretto, contrarre le mascelle, tendere la muscolatura – con inevitabili dolori, poi, a spalle e parte alta della schiena – e ci trasmetta un senso irrequietezza che non ci appartiene. Questo effetto é dovuto ad un meccanismo atavico che ha sede in una delle struttura più primitive del cervello, l’amigdala: qui, i potenziali segni di minaccia allertano una risposta di attacco o di fuga che prepara il nostro organismo a fronteggiare il pericolo: solo che qui non ci sono un’intimidazione o un rischio reale, ma non possiamo trattenerci dal reagire comunque perché la struttura che viene coinvolta non é capace di giudizio, ma é sede dell’istinto di sopravvivenza che (per tanto per sicurezza) scatta automaticamente. Una volta, poi, partito l’impulso sentiamo la necessità di scaricarlo sul malcapitato di turno: può essere un nostro familiare, il vicino di appartamento che ha involontariamente calpestato il nostro zerbino con i piedi bagnati o un ignaro automobilista, che esce troppo lentamente dal parcheggio. Per dare una veste scientifica a constatazioni come quest’ultima, i ricercatori dell’Università della Florida Trevor Foulk, Andrew Woolum e Amir Erez hanno condotto una serie di esperimenti. Nella prima fase dello studio, i partecipanti dovevano effettuare una negoziazione con qualcuno che li trattava a pesci in faccia o in modo educato. Bene, chi era stato maltrattato tendeva a fare altrettanto con altri compagni in un compito successivo. Le due indagini che sono seguite avevano lo scopo di determinare i processi mentali che portano a “ripagare i prossimi con la stessa moneta”: in questo modo é stato possibile stabilire che l’ostilità suscita una serie di concatenazioni mentali che a partire dall’aver subito delle angherie, inducono a non farla passare liscia nemmeno a chi incontriamo successivamente con un meccanismo non dissimile alla diffusione di un raffreddore. Una verifica empirica di questa scoperta é arrivata da un’indagine su larga scale degli psicologi Eva Torkelson, Kristioffer Holm and Martin Bäckström che ha coinvolto 6000 lavoratori. Da questo sondaggio é emerso che 3/4 di loro aveva subito dei soprusi o delle angherie sul posto di lavoro, ma, cosa ancora più importante, é stata la rilevazione che le cattive maniere si espandevano a macchia d’olio, semplicemente per imitazione di quanto si era visto fare (o si era subito) da colleghi o superiori. Il malumore é così dilagante, afferma Meredith Ferguson, che ha condotto uno studio analogo, da essere trascinato all’interno delle mura familiari e contribuire in maniera sostanziale all’insoddisfazione coniugale. Se un adulto, di fronte a ripetuti maltrattamenti (anche se non ne é oggetto) si mangia il fegato e si fa salire la bile (ma può stressarsi al punto di sviluppare disturbi cardiaci o una ridotta efficienza del sistema immunitario), per un bambino é un vero e proprio flagello. Gli studi al riguardo hanno dimostrato che vivere in famiglie o contesti violenti durante l’infanzia predispone allo sviluppo di disturbi psichiatrici, tra cui depressione, abuso di droghe, inclinazione al suicidio e perfino psicosi, una volta diventati adulti. Utilizzando delle moderne tecniche di imaging cerebrale (che consentono di fare una “radiografia al cervello”) si é appurato che questa condizione porta ad un’alterazione del corpo calloso, una specie di cerniera che connette le due parti del cervello; in pratica, l’esposizione ad un ambiente malsano e violento determina una eccessiva presenza degli ormoni dello stress in circolo e uno squilibrio dei neurotrasmettitori cerebrali. Questa ridotta comunicazione tra gli emisferi porta a difficoltà sia sul piano emotivo che su quello cognitivo. I danni non si limitano (si fa per dire) a questa ridotta tramissione: numerose aree risultano compromesse dalla semplice esposizione alla violenza. Ad esempio, si é rilevato che che questa condizione può portare ad un’atrofia dell’ippocampo: una struttura essenziale per l’esecuzione delle azioni e per la previsione delle conseguenze). Un’altra regione “colpita” é la corteccia prefrontale (che svolge un ruolo primario nell’attenzione, nelle capacità critiche, nell’inibizione degli impulsi, nella memoria e nella motivazione), il cui volume appare ridotto. Anche il cervelletto, coinvolto nella stabilità, nella coordinazione motoria e nella gestione dell’emotività può assottigliarsi, minando queste funzioni. Come abbiamo detto, la persona matura é meno inerme rispetto al bambino di fronte ai continui “travasi di bile” di un altro adulto (il coniuge, uno o entrambi i genitori, ecc.), tuttavia non é affatto immune. Certo, potrebbe separarsi, abbandonare il “nido”, lasciare il partner … ma a volte non ce la fa. Magari a causa di pressioni psicologiche di genitori o amici perché subisce dei ricatti morali, prova sensi di colpa nei confronti dell’untore o non crede di poter badare a sé stesso … in questi casi, permane, suo malgrado, nella condizione di disagio; qui, lo scotto é comunque pesante. Si possono sviluppare disturbi psicogeni (gastrite, afonie, un immotivato senso di fatica o di prostrazione ecc.), malattie vere e proprie (disturbi cardiaci, dolori all’apparato muscolare, vulnerabilità alle infezionie, ecc.) o emotivi (attacchi di panico, ansia, depressione, infelicità, ecc.). Se ci rendiamo conto di assorbire la rabbia e il malcontento di colleghi, familiari o il partner e che questa condizione permane nel tempo, prima di ammalarci sul serio é il caso di correre ai ripari; cosa che, in questo caso, significa prendere il coraggio a due mani e tagliare i ponti.



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