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YOGA: posizioni e disciplina della respirazione

L’āsana è la posizione yogica che gli Yoga-Sutra (II-46) definiscono sthirasukham, ovvero stabile e gradevole. Molti testi di Hata Yoga descrivono questa posizione, mentre in quella di Patañjali viene accennata in quanto l’āsana si apprende solitamente dal guru e non dai testi. L’ āsana se da un lato ci dà rigida stabilità dall’altra parte ci riduce la sforzo fisico, di modo che la fatica, la stanchezza di certe parti del corpo, i processi fisiologici si equilibrano e la nostra attenzione va solamente verso la parte fluida della coscienza. Appare evidente che inizialmente la posizione ci irretisce e può rendere la posizione stessa insopportabile, ma poco a poco lo sforzo che il corpo compie per mantenere la posizione si riduce. Questo percorso è importante e serve a farci comprendere e apprezzare come alla scomparsa dello sforzo la posizione di meditazione diventa naturale e facilitante la meditazione. “La positura è perfetta quando lo sforzo per realizzarla scompare, così che nel corpo non si avverta alcun movimento e parimente si realizza la sua perfezione quando lo spirito si trasforma in anantasamāpattibhyām, ovvero in infinito, ovvero quando l’idea dell’infinito fa il suo proprio contenuto” (Vysāsa da Yoga-Sūtra, II, 47). Vācaspati commentando Vysāsa enfatizza che colui che pratica l’āsana deve compiere uno sforzo che altro non è che sopprimere gli sforzi naturali del corpo, altrimenti non gli sarà possibile realizzare la posizione ascetica di cui si è prima detto. Per quanto riguarda lo spirito trasformato in infinito si vuole indicare la più completa e totale sospensione dell’attenzione in presenza del proprio corpo. L’āsana sappiamo tutti essere una tecnica ascetica indiana, la ritroviamo nelle Upanishad, nei testi Vedici, nell’Epopea, nei Purāna, ma dichiarano la loro importanza nella letteratura hathayogica, non a caso il trattato Gheranda-Samhitā ne descrive 32 varietà. Per ottenere il padmasana, una delle più semplici posizioni meditative, “… si pone il piede destro sul polpaccio sinistro e vice versa, si incrociano le mani sul dorso, poi i piedi sono afferrati, così che la mano destra è sul tallone sinistro e vice versa. Ora si appoggi il mento sul petto e si fissi lo sguardo sulla punta del naso…” (Gheranda-Samhitā ,II,8). Potremmo citare anche altre fonti, ma lo scopo fondamentale è uguale per tutti: “la cessazione assoluta del turbamento da parte degli opposti: dvandvānabhighātah, (Yoga-Sutra,48), ottenendo una neutralità dei sensi e la coscienza non turbata dalla presenza del corpo”. L’ āsana è l’abolizione del modo di esistere dell’uomo, la posizione del corpo immobile ed ieratico imita una condizione completamente diversa da quella umana: è simile a una pianta, a una statua, non può imitare l’uomo in quanto per definizione è mobile, aritmico, agitato, pensante. L’ āsana rapportata al corpo è una ekāgratā, ovvero una concentrazione in un solo punto. Se l’ekāgratā pone fine alle fluttuazioni e alle espressioni di coscienza, l’āsana pone fine alla disponibilità del corpo e al movimento alle infinite posizioni che può assumere. La rinuncia a muoversi, āsana, a lasciarsi trasportare dal turbinio degli eventi, ekāgratā, si manifesterà successivamente in rinunce di varia origine e significato. Una tra queste, che ci tocca da vicino nella pratica dello yoga, è la rinuncia alla respirazione, prānāyāma, ovvero a respirare in modo aritmico comune a tutti gli uomini. Patañjali così definisce la rinuncia: “ Il prānāyāma consiste nell’arrestare i movimenti inspiratori ed espiratori e si ottiene dopo aver realizzato l’ āsana.” ( Yoga-Sutra,II,49). L’arresto della respirazione è in effetti il ritmare la stessa quanto più lentamente sia possibile, in questo modo si ottiene con il prānāyāma. In merito alla modificazione del respiro molteplici sono gli studi e le dissertazioni fisiologiche e filosofiche, ma tutte concordano nel dire che esiste un legame tra stato mentale e respirazione e viceversa. Il respiro di un uomo che si concentra si fa lento, ritmico, mentre quello di un uomo in preda a uno stato di agitazione e violenza è agitato e aritmico. Questo particolare permette di dire che con la respirazione rallentata e rallentante in modo progressivo, lo yogin riesce a sentire sperimentalmente in se stesso e in piena lucidità alcuni stati di coscienza che caratterizzano il sonno. Si spiega come mai un novizio che giunga a questo stadio si addormenti non appena riesce a portare il ritmo del respiro al ritmo dello stato di sonno. Gli asceti indiani conoscono 4 modi di coscienza: - coscienza diurna - del sonno con sogni - del sonno senza sogni - coscienza catalettica Lo yogin con il prānāyāma, con il ritmo del respiro il cui intervallo tra inspiro ed espiro si fa sempre maggiore, riesce a penetrare tutte le modalità della coscienza, mentre per il profano esiste discontinuità tra le differenti modalità, per cui passa, senza accorgersene, senza avere la coscienza, dallo stato di veglia a quello di sonno. Lo yogin deve mantenere la continuità della coscienza, deve cioè rimanere lucido, sicuro di sé in ciascuno degli stati. È ovvio che riuscire a condurre tutto ciò richiede esercizio e preparazione. Il profano, inteso come colui che desidera avvicinarsi alla pratica yogica e ad essere yogi, deve riconoscere che il fine del prānāyāma è inizialmente modesto: è un esercizio con il quale e attraverso il quale si inizia a mettere insieme una coscienza continua che porta ad aprire alla meditazione. Inizialmente la nostra respirazione è aritmica, coinvolta dalle circostanze esteriori e dalla tensione del mentale, che può generare una fluidità della psiche negativa con instabilità e dispersione dell’attenzione. Il prānāyāma è una particolare attenzione che si volge alla vita organica, una conoscenza attraverso l’atto, un entrare in modo lucido, consapevole, calmo nell’essenza stessa della vita. Lo Yoga raccomanda di vivere non di abbandonarsi alla vita, le attività sensoriali possiedono l’individuo, sono capaci di alterarlo e di disgregarlo. La concentrazione sulla respirazione ha come effetto proprio nei primi giorni di iniziazione, una inesprimibile sensazione di armonia, una sensazione di ritmo e melodia, un livellamento di tutte le alterazioni fisiologiche, poi la respirazione lascia intravvedere un sentimento nel corpo non noto. Il ritmo della respirazione si ottiene armonizzando tre momenti: l’inspirazione o pūraka l’espirazione o recaka la conservazione dell’aria o kumbhaka, e devono essere uguali tra loro. La durata della respirazione ha per unità di misura un mātrāpramā. Secondo Skanda Purāna una mātrā è uguale al tempo che serve per una respirazione (ekaçvāsam api mātrāprānāyāme nigadyate). Nel praticare il prānāyāma ci si serve del mātrāpramāna come unità di misura, ovvero ogni momento della respirazione diminuisce fino a divenire di 24 mātrā, che lo yogin misura ripetendo mentalmente la sillaba mistica om , che incarna l’essenza mistica del cosmo intero, tante volte quanto è necessario, sia muovendo una dopo l’altra le dita della mano sinistra.

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